Durante il periodo di emergenza la nostra vita ha subito delle trasformazioni per forza di cose. Ci siamo trovati a dover affrontare una situazione di incertezza e di instabilità maggiori rispetto a quelle a cui eravamo abituati normalmente, in primo luogo come cittadini, in secondo luogo come operatori sanitari.

Abbiamo vissuto l’isolamento e la solitudine in prima persona, privati dei nostri affetti e dei nostri punti di riferimento.

Ad esempio, “ero abituato a una vita sociale abbastanza attiva, tra università, lavoro e relazioni personali. La mia vita era caratterizzata da molte attività differenti, dinamica, spesso fuori casa. Il primo lockdown è stato dal mio punto di vista abbastanza spiazzante, costringendomi, assieme a milioni di italiani, a modificare completamente il mio modo di vivere, in primo luogo come cittadino. Le giornate hanno iniziato a sembrare più lunghe, talvolta noiose, da passare in poche stanze. Mi sono dedicato alla musica, al recuperare vecchie serie tv e a reinventare il mio modo di stare con gli altri. La tecnologia ha funto da stampella per camminare nell’oscurità dell’incertezza, permettendo di costruire un ponte virtuale tra noi e gli altri, fatto di chat, videochiamate e emoticon, che hanno in parte, come possono, sopperito a quello che più ci stava mancando: il contatto.”

Dal punto di vista lavorativo abbiamo cercato di proseguire il nostro lavoro di sostegno e di accompagnamento durante il percorso di vita, senza tuttavia avere la possibilità di essere presenti e vicini fisicamente alle persone che seguiamo. La vicinanza è uno degli strumenti caratterizzanti del nostro lavoro, fondato sulla presenza, sull’esserci, sul quotidiano. Ci siamo trovati a dover rispondere a un bisogno senza avere le stesse possibilità di prima, senza poter ricorrere alle modalità che eravamo abituati a utilizzare e dovendo per forza reinventarci.

“Da un giorno all’altro è cambiato tutto. Accessi contingentati nei centri diurni, visiti domiciliari solo se necessarie, gruppi sospesi o comunque a partecipazione ridotta. Si usano le piattaforme di comunicazione on line. Ok, funziona tra colleghi…ma i pazienti? Molti non solo non hanno grande dimestichezza con la tecnologia, ma non possiedono neanche i mezzi. E allora ti aggiusti con tanti colloqui telefonici in più, con qualche videochiamata su whatsapp, fatta nelle ore che coincidono con il pranzo o la colazione, quasi a farne da surrogati eterei. Come eteree sono le giornate e il loro tempo, dilatato, lungo, o troppo pieno di vissuti o insensato. Per noi educatori. Quante volte mi sono chiesta…e per loro? Ho lavorato ogni giorno con questa domanda, che mi pulsata nel cervello. Se è difficile per me gestire questa lontananza, il distanziamento, l’isolamento, le mascherine, le regole… come sarà per i pazienti che tanto hanno faticato per ritagliarsi spazi di normalità? E ora non c’è nulla di normale. La follia vera sembra questa. Eppure…quanto ho imparato da loro. La resilienza. Lenta, delicata, misurata. La resistenza. Il rigore e il rispetto e non solo delle regole, ma dell’altro. Capaci di leggere le emozioni da sotto la mascherina, negli occhi altrui, nella voce, pieni di empatia. Oltre che di solitudine e sofferenza.”

Abbiamo provato a metterci in gioco, come servizio e come operatori, cercando di reinventarci e di rimarcare il nostro esserci per gli utenti e la nostra vicinanza non più in termini fisici, ma prevalentemente tramite contatti telefonici. Questa modalità risulta sicuramente più immediata e emerge come la più attuabile durante questa emergenza, sebbene non sia esente da limiti. Per alcune delle persone in carico la presenza fisica dell’educatore è fondamentale per sentire la sua vicinanza e per sentirsi veramente accolte. In queste situazioni il colloquio telefonico risulta essere un palliativo, uno riempitivo che tuttavia sono assolve pienamente al bisogno e alla domanda espressi. Vi sono però altre situazioni in cui invece il colloquio telefonico emerge come strumento più che sufficiente per portare avanti la relazione educativa instaurata, sia per una maggiore autonomia da parte dell’utente, sia magari per una minore necessità di presenza fisica da parte dell’operatore nel percorso strutturato.

“Quel che posso dire è che stata una sensazione di smarrimento e destabilizzazione a livello emotivo e mentale. Da poco avevo conosciuto il mio fidanzato e all’improvviso invece del contatto fisico mi sono ritrovata davanti ad uno schermo di un cellulare tramite video chiamate. Poi anche la mia attività sociale si è ritrovata in ginocchio. Dal momento in cui ho conosciuto M. il mio fidanzato, la mia vita sociale era aumentata e all’ improvviso mi sono ritrovata davanti a quattro mura di casa più sola che mai.

Ad ogni modo dall’altra parte c’era il supporto della mia educatrice M., che riuscivo a sentire tramite video chiamata, tre o quattro volte al giorno. Questo mi ha aiutata e supportata molto durante tutto il lokdown. E’ stata come uno scoglio sul quale potessi aggrapparmi per non finire inondata si pensieri e malumori. Non la ringrazierò mai abbastanza per tutto il supporto e la presenza concessami.”

Queste constatazioni emergono sia da riflessioni personali che dal lavoro svolto dalla Cooperativa durante il lockdown. È stato strutturato infatti un questionario con domande aperte e chiuse che abbiamo utilizzato come traccia durante alcuni colloqui telefonici, informando ovviamente l’utente del fatto che le risposte sarebbero state registrate al fine di raccogliere dati utili per il servizio. Le domande andavano ad analizzare lo stato di benessere psico-fisico dei partecipanti alla ricerca, inclusi il ritmo sonno-veglia, lo stato emotivo, la qualità delle relazioni con le altre persone con cui condividevano gli spazi (se presenti) e soprattutto la percezione di bisogno di aiuto e di supporto. I dati hanno riportato quanto espresso sopra: i colloqui telefonici fanno spesso sentire il supporto e la presenza del servizio ma per la maggior parte degli utenti non sostituiscono l’intervento in presenza, sottolineando quanto quest’ultima sia importante nel lavoro che svolgiamo.

La pandemia ha posto dal mio punto di vista l’attenzione sul rischio che ancora una volta i più deboli finiscano per essere dimenticati, lasciati da parte e impigliati come marionette tra i fili della vita.

“Dall’esperienza del lockdown ho imparato a non dare mai nulla per scontato, per certo e per definito. Ho imparato quanto sia importante la creatività nel nostro lavoro e quanto sia necessario essere flessibili per adeguarsi alle richieste del contesto, cercando di riadattarsi sempre. Vorrei portare con me nel mio bagaglio esperienziale queste competenze anche nella vita lavorativa futura, sperando di riuscire davvero a sfruttarne appieno l’utilità.”

Certamente abbiamo tutti avuto modo di allenare la nostra resilienza, le nostre competenze nel reagire e gestire situazioni particolari e talvolta avverse. Dopo il primo lockdown l’Italia, dopo qualche mese di libertà, è diventata un tingersi di colori che, modificandosi in continuazione hanno portato il modificarsi di ciò che si può e non si può fare, del giusto e dello sbagliato, portandoci a proseguire lo sforzo nel cercare di comprendere la situazione e nel cercare di trovare dei punti fermi in un contesto perennemente mutevole.

“Molti hanno “sfruttato” la situazione, per chiudersi ancora di più, forse patendo, forse sentendosi finalmente a posto in un mondo così simile al loro mondo interiore, legittimati all’isolamento. Quale movimento più semplice di questo? Chi non lo ha fatto? Che paradosso. Una serie di abitudini stravolte. Ma loro sempre pazienti, tolleranti. In attesa in questo tempo sospeso. Sospeso come loro, come noi, come tutti. Ma abbiamo lavorato per cercare di trasformare il disagio in risorsa, per esempio, dando vita a questo spazio virtuale, testimonianza della resilienza e della resistenza di tutti noi. Ma più loro. Durante il primo lockdown ho scritto questa considerazione, accompagnata dall’immagine di una barca, isolata, sulla spiaggia deserta in riva al mare. Un’immagine evocativa.”

Come operatori abbiamo gestito e stiamo gestendo l’emergenza nel migliore dei modi? Credo sia presto per dirlo. Sicuramente l’impegno è stato ed è tanto, nella speranza di essere riusciti (e di riuscire durante tutto il periodo) a portare avanti il nostro operato nella maniera più efficace e funzionale possibile nonostante le limitazioni e nella speranza di poter tornare a breve a vivere come ci faceva stare bene.